Oggi credo che possa essere utile trattare un tema che confido aiuterà a comprendere meglio anche articoli di colleghi che stanno approfondendo argomenti decisamente cruciali per tentare di interpretare ciò che sta succedendo sui mercati finanziari: il collegamento tra politiche fiscali, debito pubblico, tassi delle banche centrali e trend finanziari.
Sembra complicato ma non solo lo è molto meno di quanto sembri ma penso che l’aspetto più complesso sia il prendere coscienza di ciò che accade soprattutto perché alcuni effetti vengono da molto lontano (30-40 anni) ed hanno più una matrice geopolitica che non strettamente economica.
Partiamo dall’analisi del grafico seguente.
Possiamo subito notare che, prima ancora di analizzare l’indice S%P500, qualcosa sembra essere successo nel 2008. Infatti, a seguito di ciò che è accaduto in quel periodo di crisi la curva del debito pubblico si è irripidita ulteriormente e il tasso ufficiale di sconto è andato pressoché a zero! E’ facile constatare come tutto ciò si sia riflettuto sull’indice finanziario portandolo ad un trend lungo e particolarmente fruttuoso.
Teniamo particolarmente a far notare che tutti gli indicatori macroeconomici hanno di solito un andamento altalenante, spesso sinusoidale, ovvero salgono e scendono periodicamente. Questo non è un male, anche le crisi sono molto utili al sistema perché puliscono i settori economici dalle aziende inefficienti privilegiando quelle che producono cambiamenti positivi. Inoltre, va detto che ci sono anche aziende e settori interi che proliferano in frangenti determinati, ma diversi gli uni dagli altri, dell’andamento di un dato parametro economico. A puro titolo di esempio, vediamo come nei momenti di forte espansione economica proliferano le vendite di beni voluttuari mentre nelle fasi di recessione quelle dei beni di prima necessità; nei periodi con tassi di interesse molto bassi il settore crediti degli intermediari finanziari (banche e società finanziarie) marginano poco perché anche gli spread si abbassano in proporzione ai tassi di riferimento mentre quando i tassi salgono, superato il primo momento attendista dovuto alla sfiducia verso il futuro e di maggiore valutazione della solvibilità delle aziende che tengono bene la fase di recessione, marginano certamente meglio perché gli spread sui tassi di interesse applicati ai finanziamenti erogati salgono; ecc…
Non è mai positivo che un parametro chiave resti per tanto/troppo tempo (oltre quello medio storico secolare) a valori bassi o alti, produce squilibri. I tassi devono continuare a salire e scendere in modo sano e le economie (anche i mercati finanziari) devono procedere con fasi di espansione e recessione in modo altrettanto sano.
Cosa è successo negli ultimi 35 anni? Ben due fasi di espansione dei mercati finanziari della durata di circa 12 anni e tassi ufficiali di sconto a zero o bassissimi per circa 10 anni. Lasciamo a voi le supposizioni sui motivi e le possibili conseguenze nei prossimi 10-20 anni.
Le dinamiche sono facili da spiegare semmai potrebbe essere di difficile interpretazione il motivo per cui un’area del mondo, gli Stati Uniti d’America, che è la più evoluta e la più produttiva (da decenni) abbia avuto la necessità di proseguire dopo il 2010 (a due anni dalla suddetta crisi e con mercati ormai ripresi dal 2009) a passo spedito con l’aumento del debito pubblico, anche attraverso politiche fiscali particolarmente accomodanti, e a mantenere a zero il tasso ufficiale di sconto.
L’impressione che se ne trae è da un lato che gli ultimi incrementi dei valori di borsa non siano frutto unicamente di maggiori capacità di generare utili aziendali, ma di una sorta di doping economico-finanziario, e dall’altro di non aver gestito bene le leve economiche ma, come già evidenziato nello scorso articolo, non crediamo di saperne più di fior di prestigiosi economisti statunitensi, semplicemente le motivazioni più che in campo economico locale sono da ricercare su basi geopolitiche.
Il punto adesso è: come faranno a gestire il debito pubblico stratosferico con gli interessi più costosi (soprattutto se il PIL dovesse ridursi per via di una recessione) ed una economia finanziaria che ha molto spazio per scendere dopo 12 anni in cui i propri indici di borsa si sono moltiplicati per 8 nel caso dell’indice S&P500?
Come faranno a far rientrare un’inflazione ormai indirizzata verso le due cifre senza alzare così tanto i tassi di interesse al punto da penalizzare sia il bilancio statale che le singole aziende sempre più indebitate?
Consideriamo che l’inflazione la si può tenere a bada sostanzialmente in due modi: alzando i tassi o per via di una recessione che porta la popolazione a raffreddare i consumi sia per timori verso il futuro che perché un indebitamento più costoso convince a rimandare alcuni acquisti di beni non di prima necessità.
Noi crediamo che la leva del rialzo del tasso ufficiale di sconto da parte della FED non sia utilizzabile per più del 3%, poi toccherebbe fare i conti con una recessione, nel 2023, che potrebbe anche essere indotta. Una recessione spalma il costo degli eccessi passati senza pesare troppo sulle casse statali o delle aziende, sempre se la banca centrale decidesse di non muovere ulteriormente i tassi in su e il governo statale non intervenisse con politiche fiscali volte a distribuire altre risorse economiche (se non di piccola entità). Una tassa occulta che riduce l’eccesso di denaro in circolazione.
Il timore è che tutto questo si ripercuota sui mercati in diversi modi, tra cui anche la discesa delle quotazioni fino a tutto il 2023, o almeno metà; oppure il panico ora, che porti i mercati a perdere più del valore fair (corretto, ossia CAPE SHILLER < 17), e una risalita subito dopo a prescindere dall’andamento dei tassi di interesse o dalla conclamazione della recessione che potrebbe arrivare nel 2023. Il secondo caso corrisponde più o meno a ciò che è successo nel 2000, senza il ribasso dovuto al crollo delle torri gemelle del 2001 del tutto imprevedibile.
Staremo a vedere, alla prossima.